L’emergenza climatica e la pandemia di Covid-19
La diffusione di Covid-19 è legata anche alla sottovalutazione dell’impatto delle attività umane sull’ambiente, ma il riscaldamento climatico – una sorta di pandemia al rallentatore – non finirà con la fine di questa emergenza: che ci sta mostrando l’efficacia delle azioni collettive per risolvere problemi globali.
Sono bastate alcune settimane di blocco per riscoprire l’aria. Ne sentiamo la mancanza perché siamo chiusi in casa, e ci stupisce perché in pochi giorni si ripulisce, come fosse aria di montagna. È però anche fonte di preoccupazione: la scienza dice anche che l’aria inquinata rende le società urbane più vulnerabili alle infezioni. Allo stesso tempo, è più chiaro che l’avvertimento del mondo scientifico di fare attenzione perché il cambiamento climatico ci renderà ancora più vulnerabili a questi ed altri eventi è reale e non remoto.
Questo momento di apertura verso la scienza, a cui chiediamo di risolvere il problema della pandemia il prima possibile, può essere un’opportunità per riflettere su come continuare ad affrontare l’emergenza climatica, che non sarà passata dopo l’emergenza Covid-19. D’altronde, il riscaldamento climatico è una sorta di pandemia al rallentatore.
I media rimbalzano notizie di agenzia o propongono studi sull’impatto di questo cambiamento forzato di stile di vita sulle emissioni di gas che alterano il clima o sull’inquinamento atmosferico. Pur non essendoci nulla di buono nella emergenza attuale, questo mutamento repentino può mostrarci qualcosa sull’efficacia di azioni collettive per risolvere un problema globale, come una pandemia.
Una riflessione a questo punto si impone: non è solo il mondo scientifico a insistere sul legame tra il riscaldamento globale, la maggior penetrazione antropica negli ecosistemi naturali e l’aumento delle pandemie, è anche quello finanziario e produttivo.
Che cosa sappiamo a questo punto dello stato dell’atmosfera e cosa possiamo attenderci al termine dell’emergenza?
Gli effetti del blocco
“Le emissioni di CO2 sono di sicuro calate, ma i conteggi sui gas serra sono complicati. E’ una situazione nuova che ci riguarda da pochi mesi, in alcune regioni da settimane, e per ora non è possibile rispondere con precisione”, spiega Serena Giacomin, climatologa e presidente dell’Italian Climate Network. Secondo l’organizzazione Carbon Brief sono bastate poche settimane di blocco delle attività in Cina per ridurre le emissioni del 25 per cento, mentre il consumo di carbone nelle centrali elettriche è diminuito del 36 per cento.
“Il riscaldamento globale però non si può risolvere con poche settimane di chiusura dei servizi pubblici e delle industrie. L’anidride carbonica ha una permanenza in atmosfera di cento e più anni e quindi continueremo a scontare una storia di emissioni passate”, dice. Dovremo quindi attendere ancora prima di poter quantificare impatti positivi o negativi sulla concentrazione dei gas serra. Al momento ogni considerazione in merito è speculazione.
“Altro discorso è quello sugli inquinanti che stratificano nella parte bassa della atmosfera, come i PM2.5, i PM10, e soprattutto i cosiddetti NOx (ossidi di azoto), o i black carbon, un particolato molto tossico generato anche dall’usura di pneumatici e asfalto. Tutti questi, anche se in modo diverso per motivi meteorologici e di conformazione del territorio, sono certamente diminuiti”, dice ancora Giacomin. Il calo degli NO2 è stato tanto repentino da essere rilevato subito dal satellite ESA Sentinel-5P.
In questa situazione così difficile sono a rischio incontri importanti per definire le strategie per la conservazione della biodiversità o per il clima, come l’incontro Cop26 per i negoziati sul clima, e la Cop15 per la convenzione sulla biodiversità (CBD) prevista a ottobre in Cina.
Ora, ovviamente, queste riunioni passano in secondo piano, anche se è proprio alla luce dell’emergenza Covid-19 e della riscoperta di un bene che diamo per scontato, l’aria, che è urgente decidere quali strategie adottare per conservare la biodiversità e frenare il cambiamento climatico.
“Dovremmo allontanarci dalla prospettiva comune in cui il clima ha un impatto sull’ambiente naturale e basta. Ha anche ricadute economiche e sanitarie. Dobbiamo far capire che affrontare e trovare soluzioni per l’emergenza climatica vuol dire trovare soluzioni per la nostra stessa salute”, dice Giacomin. La scienza su questo è chiara.
Che poi è quello che sostiene “Lancet” nel rapporto annuale Lancet Countdown on health and climate change: il clima è “il più grande problema del secolo”. Un problema che non riguarda solo congestionate megalopoli di paesi emergenti, ma anche l’Italia. Secondo l’Air Quality Report del 2019 redatto dalla European Environment Agency (EEA) l’Italia, con 14.600 decessi, è in prima posizione per morti precoci da biossido di azoto e seconda, con 58.000 decessi, per quelli causati dall’eccesso di particolato. Cifre che speriamo di non raggiungere con Covid-19.
Covid-19 passerà, e poi?
Grazie allo sforzo collettivo Covid-19 passerà, ma il clima e il degrado ambientale potrebbero continuare: gli sforzi a sostegno delle energie rinnovabili per aiutare l’Europa a raggiungere i propri obiettivi climatici potrebbero essere messi da parte in nome di un rilancio economico dei Paesi.
Ma non è detto che sarà così. “Mi aspetto una serie di piani per il rilancio dell’economia, come avvenne per la crisi del 2009. All’epoca gli Stati Uniti investirono 100 miliardi di dollari in rinnovabili, infrastrutture smart, efficienza energetica, treni, riciclo dell’acqua. La Cina ne investì 220, il 38 per cento del totale investito”, ci spiega Enrica de Cian, direttrice del Master di ricerca in Science and Management of Climate Change dell’Università Ca’ Foscari di Venezia. “L’Europa investì 24 miliardi nel settore green, ovvero il 60 per cento degli investimenti totali per riprendersi dalla crisi.”
Quando l’emergenza sarà passata i paesi si troveranno dunque di fronte a un bivio: “Potranno rilanciare l’economia attraverso piani già pronti, forse obsoleti da un punto di vista delle priorità ambientali. Oppure potranno cogliere l’opportunità per accelerare la transizione energetica”, sostiene De Cian. E aggiunge, quasi avesse letto il pensiero di Giacomin: “Tra l’altro la definizione ‘energetica’ è ingiusta in quanto si tratta di una transizione che va a beneficio della qualità dell’aria, dell’acqua, degli ecosistemi e dei cambiamenti climatici, riducendo il manifestarsi di eventi potenzialmente molto dannosi”.
Sulle scelte che i governi vorranno fare De Cian è però fiduciosa. Forse perché anche il privato si sta già muovendo in questo senso: “La tendenza degli investimenti privati ad abbandonare il settore dei combustibili fossili è già in corso e sarebbe miope tornare indietro. Soprattutto alla luce del fatto che le zone dove il virus si è diffuso di più sono zone con un alto inquinamento dell’aria.”
La crisi economica del 2009 potrebbe insegnare qualcosa, dice la docente di economia ambientale nell’ateneo veneto: “Le emissioni globali calarono di 460 milioni di tonnellate di CO2 in un anno. Poi nel 2010 abbiamo registrato un aumento di un miliardo di tonnellate. Però il tasso di crescita medio annuo delle emissioni nei nove anni successivi è stato dell’1,7 per cento invece che del 3 per cento dei nove anni precedenti.”
Questo è successo senza intaccare l’economia, anzi: in Europa – spiega ancora De Cian – la riduzione delle emissioni è continuata (-23 per cento nel periodo 1990-2018) nonostante la crescita del prodotto interno lordo (+60 per cento).
Il valore della responsabilità collettiva
Tutti segni che da un dramma si possono imparare lezioni importanti per il futuro. “Potremmo consolidare concetti noti a chi studia problematiche sociali di salute pubblica ma anche ambientali e difficili da comprendere, come quello della responsabilità collettiva o quello dell’esistenza di beni pubblici globali, come i vaccini. Tra questi concetti rientra anche la riduzione delle emissioni dei gas a effetto serra: anche qui si richiede uno sforzo collettivo su scala globale perché sia efficace.”
Nel caso di un’emergenza sanitaria il collegamento tra le proprie azioni e la possibilità di contrarre il virus è abbastanza evidente, eppure anche in questo caso sono necessarie misure imposte dall’alto, perché non tutti se ne rendono conto. Dice De Cian: “Questo ci fa capire come il concetto di responsabilità collettiva o di azioni con ripercussioni globali siano difficili da interiorizzare.”
In queste settimane abbiamo anche potuto osservare che cosa significa muoversi in un contesto di incertezza e che non si possono affrontare situazioni incerte con misure ex-post ma servono piani di prevenzione. Questo è vero per la gestione di questo e altri virus, ma vale altrettanto per le misure di mitigazione e adattamento ai cambiamenti climatici.
“L’altra cosa che abbiamo imparato, anche in un paese come l’Italia dove le istituzioni non sempre funzionano al meglio, è che i governi hanno la capacità di farsi carico di azioni decisive di cambiamento”, dice ancora.
Ma alla fine, quando torneremo alla normalità a che normalità torneremo? “Io credo che alcune abitudini resteranno, come lo smart working. In questa situazione è stato portato all’estremo, ma già prima in un ateneo come Ca’ Foscari a Venezia, dove la mobilità pesa per più del 50 per cento delle emissioni, in due anni, con il telelavoro, l’ateneo è riuscito a ridurre le emissioni del 25 per cento. Nel nostro caso sarebbe anche una strategia importante per far fronte ai sempre più frequenti eventi estremi come le acque alte o le ondate di calore, che aumenteranno a causa del riscaldamento globale. Per noi è importante avere piani di emergenza che includano lo smart working.”
E’ un’altra lezione che, forse, stiamo apprendendo da questa esperienza. Un recente studio dell’ENEA mostra infatti che un giorno a settimana di smart working per i tre quarti dei lavoratori pubblici e privati che impiegano l’automobile sarebbe sufficiente per risparmiare più di 2,8 milioni di tonnellate di CO2, e alleggerire i nostri polmoni di 550 tonnellate di polveri sottili e 8000 tonnellate di ossidi di azoto.
Anche queste poche settimane di blocco una cosa la hanno già insegnata: “L’aria è diventata un rifugio, le persone ora farebbero di tutto per uscire all’aria aperta”, dice Giacomin. “E’ un’occasione per tornare a prenderci cura di noi e di ciò che ci sta intorno.”